Parto in anonimato

Ultima modifica 5 settembre 2023

La legge italiana riconosce alla donna tre importanti diritti

  • il diritto alla scelta sul riconoscimento: ogni donna ha diritto di scegliere se riconoscere come figlio il bambino da lei procreato; perché questa scelta possa essere autonoma e consapevole e non necessitata dalle contingenze di un momento di grave difficoltà, è fondamentale che l’ordinamento affermi un secondo diritto altrettanto importante, quello all’informazione;
  • il diritto all’informazione: ogni donna può ottenere assistenza psicologica e sanitaria prima del parto, durante il parto e dopo il parto, unitamente ad ogni genere di informazione che possa prospettare soluzioni realizzabili sia nel senso del riconoscimento (forme di sostegno alla maternità ed alla genitorialità, aiuti a livello socio-assistenziale e sanitario) che del non riconoscimento (diritto a partorire nel più assoluto anonimato e di non riconoscere il nascituro); ha inoltre diritto ad essere informata, in caso di incertezza sulla scelta da operare, sulla possibilità di usufruire di un ulteriore periodo di riflessione dopo il parto (della durata non superiore a due mesi), richiedendo al Tribunale per i minorenni la sospensione della procedura di adottabilità (v. al riguardo l’art. 11, commi 2 e 3, della legge n. 184/1983).
  • il diritto al segreto del parto: per chi decide di non riconosce il proprio nato, la segretezza del parto deve essere garantito da tutti i servizi sanitari e sociali coinvolti; in questo caso, nell’atto di nascita del bambino, che deve essere redatto entro dieci giorni dal parto, risulta scritto “figlio di donna che non consente di essere nominata”.

Questi diritti riconosciuti alla donna non si contrappongono ai diritti del suo nato, ma sono funzionali all’affermazione dei diritti del neonato a crescere in una famiglia, anche diversa da quella di origine, in grado di fornirgli quelle cure affettive ed educative che gli sono indispensabili per un armonico sviluppo della sua personalità.La scelta di non riconoscere un bambino come figlio, nella consapevolezza di non poterlo crescere in modo adeguato alle sue necessità psico-affettive, rappresenta pertanto un’assunzione di responsabilità verso la nuova vita, che va rispettata e compresa.

La legge consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato (d.P.R. n. 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.

La donna che non riconosce e il neonato sono i due soggetti che la legge deve tutelare, intesi come persone distinte, ognuno con specifici diritti.

Il nostro ordinamento giuridico garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile e la tutela della maternità.
Chi nasce è riconosciuto dalla nostra legge come “persona”, cui è attribuita la capacità giuridica, cioè la titolarità di diritti, anzitutto come ad ogni essere umano i diritti inviolabili della persona, il diritto all’identificazione, al nome, alla cittadinanza, alla certezza di uno status di filiazione, alla educazione e alla crescita in famiglia.
Al neonato non riconosciuto devono essere assicurati specifici interventi, secondo precisi obblighi normativi, per garantirgli la dovuta protezione, nell’attuazione dei suoi diritti fondamentali.
La dichiarazione di nascita resa entro i termini massimi di 10 giorni dalla nascita, permette la formazione dell’atto di nascita, e quindi l’identità anagrafica, l’acquisizione del nome e la cittadinanza.
Se la madre vuole restare nell’anonimato la dichiarazione di nascita è fatta dal medico o dall’ostetrica.
"La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della madre di non essere nominata" (d.P.R. n. 396/2000, art. 30, comma 1).

L’ufficiale di stato civile, ricevuta la comunicazione del non riconoscimento, attribuisce al neonato un nome e un cognome, procede alla formazione dell’atto di nascita e alla segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni per la sua dichiarazione di adottabilità ai sensi della legge 184/83 s.m.i..

L’immediata segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni della situazione di abbandono del neonato non riconosciuto, permette l’apertura di un procedimento di adottabilità e la sollecita individuazione di un’idonea coppia adottante. Il neonato vede così garantito il diritto a crescere ed essere educato in famiglia e assume lo status di figlio legittimo dei genitori che lo hanno adottato.
Nella segnalazione e in ogni successiva comunicazione all’autorità giudiziaria devono essere omessi elementi identificativi della madre.

Il Tribunale per i minorenni, ricevuta la segnalazione, provvede “immediatamente” alla dichiarazione dello stato di adottabilità “senza eseguire ulteriori accertamenti”, ai sensi dell’art.11, comma 2, della legge 184/83 s.m.i., e all’inserimento del minore nella famiglia adottiva ritenuta più idonea.

Questa procedura può essere sospesa dal Tribunale per i minorenni soltanto:

  • su richiesta di chi afferma di essere uno dei genitori biologici, per un periodo non superiore a due mesi, “sempre che nel frattempo il minore sia assistito dal genitore naturale o dai parenti fino al quarto grado o in altro modo conveniente, permanendo comunque un rapporto con il genitore naturale”
  • quando il genitore biologico per difetto d’età (non ha compiuto i 16 anni) sia privo della capacità di riconoscere il figlio naturale; la procedura è rinviata anche d’ufficio sino al compimento del sedicesimo anno di età, permanendo in capo al genitore biologico la possibilità di avvalersi di un’ulteriore sospensione per altri due mesi a decorrere da questa data.

Inoltre la madre con particolari e gravi motivi che le impediscono di formalizzare il riconoscimento, può chiedere al Tribunale per i minorenni presso il quale è aperta la procedura per la dichiarazione di adottabilità del neonato, un periodo di tempo per provvedere al riconoscimento.
In questi casi la sospensione della procedura di adottabilità può essere concessa per un periodo massimo di due mesi, nel quali la madre deve mantenere con continuità il rapporto con il bambino.

Il padre può rifiutarsi di riconoscere il figlio?

Se la madre è libera di riconoscere o meno il figlio (potendolo lasciare in ospedale e mantenere il segreto sulla propria identità), il padre è obbligato a riconoscere il figlio.
Allo stesso modo, con il semplice fatto della nascita egli è tenuto a mantenere il bambino finché questi – anche se superata la maggiore età – non è autonomo.

L’uomo che nutra dubbi sulla paternità del bambino può, prima di effettuare il riconoscimento, chiedere il test del dna: si tratta di un’analisi del sangue volta a identificare l’effettiva paternità. In tal caso, il padre può sospendere il riconoscimento finché non ha assunto la prova certa che il bambino è proprio.

Il padre non può rifiutarsi di riconoscere il figlio, neanche se c’è il consenso della madre o se questa lo ha autorizzato – anche tacitamente – ad andare via e non farsi più vedere. Difatti, il diritto alla paternità è del figlio e non della madre; il figlio quindi, una volta divenuto maggiorenne, potrebbe fare causa al padre che non l’ha riconosciuto per chiedergli sia il riconoscimento (nonostante il tempo trascorso), sia il risarcimento dei danni subiti per la mancanza dell’affetto di un genitore.

La madre può riconoscere il figlio al posto del padre?

Il riconoscimento è un atto volontario e personale (non è ammessa, infatti, alcuna forma di rappresentanza). Questo significa che la madre non può riconoscere il bambino, come figlio dell’uomo con cui è stata, se non è quest’ultimo a farlo spontaneamente. Come vedremo a breve, però, il padre è tenuto a riconoscere il proprio figlio e, se non lo fa, la sua dichiarazione può essere sostituita dall’intervento del giudice al termine di un processo intentato dalla madre.

Che fare se il padre si rifiuta di riconoscere il figlio?

Se il padre si rifiuta di riconoscere il figlio, la madre o il figlio divenuto maggiorenne possono citarlo in giudizio e chiedere l’accertamento della paternità tramite l’esame del Dna.
L’uomo non è obbligato a sottoporsi al prelievo del sangue ma, se alla base del suo diniego non ci sono valide ragioni, il giudice può ritenere che proprio questo comportamento immotivato sia la prova della paternità. Di conseguenza, se il padre non vuol eseguire il test del Dna il giudice ne dichiara ugualmente la paternità anche senza prove.

Che fare se il padre vuole riconoscere il figlio dopo tanto tempo?

Nulla vieta al padre di riconoscere il figlio dopo tanto tempo dalla nascita. Tuttavia, per legge, se uno dei genitori intende riconoscere un figlio minore di 14 anni che è già stato riconosciuto dall’altro genitore, è necessario il consenso di quest’ulitmo. In mancanza di consenso, l’ufficiale dello stato civile non può procedere a ricevere la dichiarazione di riconoscimento.

Il consenso può essere rifiutato se il riconoscimento non risponde all’interesse del figlio. Tale interesse deve essere valutato sulla base di una serie di bisogni e finalità connessi a vari aspetti della vita quali: l’aspetto personale (ad es. l’inidoneità del padre naturale a svolgere il compito di genitore, dimostrata dallo scarso interesse verso il figlio, prima e dopo la nascita), l’aspetto sociale (ad es. quando il genitore è una persona con gravi precedenti penali), l’aspetto economico (in termini di maggiore sicurezza anche sociale).

Se il figlio ha compiuto 14 anni al momento del riconoscimento, è necessario il suo assenso. Non si può, quindi, riconoscere un figlio che non vuole essere riconosciuto.

Se il genitore che ha già riconosciuto il figlio si oppone al successivo riconoscimento da parte dell’altro, quest’ultimo deve promuovere un giudizio in tribunale. In quel caso, sarà il giudice a decidere secondo ciò che gli apparirà meglio per il bambino.

Se il giudice ritiene che il rifiuto del consenso sia giustificato da motivi gravi e irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore, emette una sentenza con cui rigetta il ricorso affermando che il genitore non ha diritto al riconoscimento del figlio.


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